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La figura dello straniero nella scrittura

05 settembre 2022 MCLI Don Bosco

Intervento del Card. Martini al convegno "Integrazione e integralismi. La via del dialogo è possibile?" 

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1. I dati della Bibbia sulla figura dello straniero

A modo di premessa va ricordato che Israele, il popolo ebraico vive in Palestina, a partire circa dal 1200 a.C., in un ambito geografico e geopolitico caratterizzato da molti spostamenti di popoli, da esodi e da migrazioni frequenti. La Palestina, infatti, è luogo di passaggio, come un corridoio tra l'Egitto e i grandi regni attorno all'Eufrate (Babilonia e Assiria), percorso continuamente da carovane ed eserciti stranieri. E' quindi un luogo dove l'esperienza dello straniero è un fatto quotidiano; ciò spiega la rilevanza del nostro tema in particolare nella Bibbia ebraica, nel Primo Testamento. Del resto Israele stesso è un popolo che ha vissuto una lunga e dolorosa esperienza di migrazione e di esilio. Ha abitato da straniero in Egitto per 400 anni. Dopo la caduta di Gerusalemme (586 a.C.), molti israeliti furono deportati in Babilonia. Per tutti questi motivi Israele ha sviluppato una concezione varia e articolata del fenomeno dello straniero, espressa anche dal vocabolario. Sono almeno tre i termini fondamentali della Bibbia ebraica per indicare lo "straniero" o "forestiero".

Tre termini nei quali si può leggere qualcosa dell'esperienza sofferta e dinamica di Israele e del cammino della rivelazione nel cuore di questo popolo: lo straniero lontano -zar, lo straniero di passaggio -nokri-, lo straniero residente o integrato -gher o toshav-.


  1. La parola ebraica zar sta a significare lo straniero che abita fuori dei confini di Israele, colui che è del tutto estraneo al popolo. Verso questa figura si verifica un senso di timore, di estraneità, di paura e di inimicizia. La paura dello straniero ha quindi delle radici molto profonde nel cuore umano, e viene documentata dalla Scrittura. C'è anzi un gioco di parole nell'ebraico, che permette di confondere zar (straniero) con sar (il nemico da cui ci si deve difendere). Un gioco di parole che fa comprendere come Israele si sentisse un popolo piccolo e debole, circondato da popoli potenti che ne insidiano la sovranità. Da qui la paura e il senso di estraneità verso i popoli vicini aggressivi e prepotenti. Tra i tanti possibili testi, cito Isaia, là dove compiange le sofferenze della sua gente: "Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri" (1,7). E' chiaro che "stranieri" vuol dire "nemici" temibili.

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Questa considerazione praticamente negativa dei popoli stranieri si evolve verso toni più positivi specialmente dal momento dell'esilio in Babilonia (circa VI secolo a.C.), quando affiora la percezione che l'esilio non ha segnato la disfatta del Dio d'Israele, quasi fosse stato sconfitto da idoli, da dèi più potenti di cui si vantavano gli altri popoli. Al contrario l'esilio fa prendere maggiormente coscienza della elezione dei figli d'Israele, fa emergere quanto Dio ami il suo popolo e gli affidi una missione in mezzo alle genti straniere. Paradossalmente la sconfitta aiuta a percepire la missione verso gli stranieri. 
Richiamo un brano di Isaia, che si riferisce al popolo in esilio: "Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri" (42,6).

Lo straniero allora non è più solo un nemico da temere, ma un popolo da illuminare, e la paura nei suoi confronti si riduce per fare posto a un senso di missione. Notiamo che una simile coscienza risuona anche nel Nuovo Testamento, per esempio nelle parole di Zaccaria al tempio: Gesù bambino è chiamato "luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele". Sono parole che riprendono verbalmente Isaia e segnano il superamento della paura dello straniero verso la coscienza di una missione nei suoi riguardi.


  1. Il secondo termine, nokri, è usato per lo straniero di passaggio, l'avventizio, colui che si trova momentaneamente in mezzo al popolo per motivi di viaggio, di commercio (una sorta di "pendolare"). 
    Verso il nokri ci sono alcune distinzioni che denotano ancora una lontananza, ma non più una paura. Un passo del Deuteronomio fa un elenco di animali puri e impuri, con le distinzioni legali, e dice tra l'altro: "Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio" (14,21). Si mantiene una certa distanza verso gli avventizi e insieme si fanno delle concessioni. Comunque la regola di base è l'ospitalità, tipica della tradizione dell'Oriente, ospitalità che comporta rispetto e buona accoglienza. Chi di noi ha avuto occasione di andare presso le tende dei beduini, ai margini del deserto, conosce questa ospitalità, questa accoglienza gioiosa. 
    Cito in proposito l'esempio di Abramo, che accoglie tre angeli, a lui stranieri, non membri del suo popolo, si mette al loro servizio e prepara un lauto pasto: "Abramo sedeva all'ingresso della tenda, nell'ora più calda del giorno", quando si ha voglia di dormire, di abbandonarsi al sonno. "Alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui.

Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto   l'albero" (Gen 18,1-4). Fa quindi preparare focacce e un vitello tenero e buono. E' una bella descrizione dell'accoglienza riservata agli stranieri di passaggio, agli ospiti.
c. Il terzo vocabolo è gher o toshav e viene impiegato per lo straniero residente, colui che essendo di origine straniera e non appartenendo perciò al popolo ebraico per nascita, risiede più a lungo o stabilmente in Israele. Questa figura gode di una vera protezione giuridica, come appare fin dai testi legislativi più antichi: "Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto" (Es 22,20). E' un testo da cui emerge una radice più profonda dell'accoglienza allo straniero: la ragione, il motivo del rispetto sta anche nell'esperienza di migrante vissuta e sofferta dal popolo eletto: il popolo è invitato a ricordarsi delle sofferenze passate. Proprio perché tu sei stato forestiero in terra altrui e hai visto quanto sia dura tale condizione, cerca di avere comprensione e misericordia verso coloro che fanno questa esperienza nel tuo paese. 
Nel corso dei secoli, con la maturazione religiosa avvenuta nell'esilio -cioè nella purificazione e nella sofferenza- e anche con la evoluzione delle leggi e dei costumi, il gher sarà sempre più inserito nella comunità religiosa, come leggiamo in Dt 10,18-19: "Il Signore rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero". L'amore per il forestiero è visto quale imitazione di Dio stesso. Emerge un parallelo tra la concezione che il popolo ha di Dio e la concezione dello straniero. Se Dio ama i deboli -l'orfano, la vedova, lo straniero- noi pure dobbiamo amarli.

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    I principi teologici dell'accoglienza dello straniero nel Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento segna un passo ulteriore e decisivo nel rapporto con lo straniero. Il discorso sarebbe molto lungo e volendo riassumere in breve le motivazioni che nel Nuovo Testamento fondano il comportamento cristiano verso il forestiero, le esprimo così: una motivazione cristologica, una carismatica e una escatologica.
a. Il motivo cristologico è ricordato in Matteo 25, nella scena del giudizio finale, là dove Gesù proclama che chi accoglie il forestiero accoglie lui stesso: "ero forestiero e mi avete ospitato...Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". Si dice dunque molto di più del testo del Deuteronomio (Dio ama il forestiero e tu devi imitarlo). L'accoglienza dello straniero non è una semplice opera buona, che verrà ripagata da Dio, bensì l'occasione per vivere un rapporto personale con Gesù.
Mi viene in mente Madre Teresa di Calcutta, che ha ripetuto infinite volte la parola "lo avete fatto a me", facendone il fulcro di tutta la sua missione. E' certamente una parola chiave per il rapporto col prossimo e anche con lo straniero.
b. Il secondo motivo, che chiamo carismatico, sta nel primato della carità. "Aspirate ai carismi più grandi", insegna san Paolo in 1Cor 12, 31 e, nel capitolo 13 dice che il carisma più grande è la carità. L'accoglienza dello straniero è una delle attuazioni dell'amore, amore che è la legge fondamentale del cristiano. "Ama il prossimo tuo come te stesso", risponde Gesù a chi gli chiede qual è il primo dei comandamenti (cf Mc 12,31); e in Mt 7,12 Gesù riassume la Legge e i Profeti nella cosiddetta regola d'oro: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro". La carità, dono superiore a ogni altro, si esercita verso tutti, quindi pure verso lo straniero, come sottolinea la parabola del buon samaritano. Costui, considerato straniero dal popolo ebraico, non ha esitato a soccorrere un ebreo ferito che si trovava sul ciglio della strada; ha superato le barriere razziali e religiose, "si è fatto prossimo" (cf Lc 10,36), ha vissuto il carisma della carità.
c. Il terzo motivo che emerge da alcuni passi del Nuovo Testamento è di carattere escatologico,

concerne le cose ultime, la destinazione dell'uomo alla vita eterna. In tale visuale, tutti i credenti in Cristo sono pellegrini e stranieri in questo mondo: "Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura"(Eb 13,14; cf Eb 11,10-16).
Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto, costituiva per gli Israeliti un invito all'ospitalità verso gli stranieri, ad avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati a comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini rispetto alla patria terrena. Un cristiano dei primi secoli descriveva lo stato di "pellegrino" proprio del cristiano in un modo molto bello: "I cristiani abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei cittadini, e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera" (Lettera a Diogneto). E non perché i cristiani si disinteressano della città terrena, bensì perché sanno di essere in cammino verso quella città che Dio stesso ci sta preparando.
Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di un'umanità che trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta.